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venerdì 10 settembre 2010

Linguistica

Il linguaggio influenza il pensiero? Parte II


[Precede]

Dal momento che non ci sono prove che una qualunque lingua impedisca ai suoi parlanti di pensare qualunque cosa, dobbiamo guardare in una direzione completamente diversa per scoprire come la nostra lingua madre influenzi davvero la nostra esperienza del mondo. Circa cinquant'anni fa, lo stimato linguista Roman Jakobson rilevò in una concisa massima un fatto cruciale circa le differenze tra lingue diverse: “Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che esse debbono comunicare non in ciò che esse possono comunicare”. Questa massima ci offre la chiave per sbloccare la vera forza della lingua madre: se lingue differenti influenzano la nostra mente in modi differenti, non è per via di ciò che la nostra lingua ci permette di pensare, ma piuttosto per ciò su cui essa ci obbliga a pensare.

Considerate questo esempio. Supponiamo che io vi dica, in inglese, “I spent yesterday evening with a neighbor”. Un inglese si potrebbe chiedere se chi mi ha fatto compagnia fosse maschio o femmina, ma io avrei allora il diritto di rispondervi gentilmente che non è affar vostro. Se parlassi però italiano o tedesco, non avrei il privilegio di dare adito a questo equivoco, perché sarei obbligato dalla grammatica della lingua a scegliere fra “vicino” o “vicina”, Nachbar o Nachbarin. Queste lingue mi obbligano a dare informazioni sul sesso di chi mi ha fatto compagnia, che io lo ritenga o no di tuo interesse. Ciò non significa, naturalmente, che i parlanti inglesi non siano capaci di comprendere la differenza tra una serata trascorsa con un vicino maschio e una con una vicina femmina, ma significa invece che non considerano il sesso dei vicini, degli amici, degli insegnanti e una moltitudine di altre persone ogni volta che questi sbucano in una conversazione, mentre i parlanti di altre lingue sono costretti a farlo.

D’altra parte, l’inglese obbliga a specificare certi tipi di informazione che possono essere lasciati al contesto in altre lingue. Se voglio parlarvi in inglese della cena con il mio vicino (o la mia vicina), non sono obbligato a esplicitare il sesso di chi mi abita accanto, ma non posso non dirvi qualcosa sul tempo dell’evento: devo decidere se cenammo (“we dined”), abbiamo cenato (“have been dining”), stiamo cenando (“are dining”), ceneremo (“will be dining”) e così via. Il cinese, invece, non obbliga i suoi parlanti a specificare il tempo esatto dell’azione, perché lo stesso verbo può essere usato per azioni passate, presenti e future. Ancora: ciò non significa che i cinesi non riescano a capire il concetto di tempo. Ma significa invece che non sono obbligati a pensare al tempo dell’azione ogni volta che la descrivono.

Quando la tua lingua ti obbliga a specificare costantemente certi tipi d’informazioni, ti costringe a prestare attenzione a certi dettagli del mondo e a certi aspetti dell’esperienza a cui i parlanti di altre lingue non sono obbligati a fare continuamente attenzione. E dal momento che tali abitudini di linguaggio sono coltivate fin dalla più tenera età, è naturale che si possano insediare come abitudini mentali che vanno al di là del linguaggio stesso, incidendo sulla nostra esperienza, la nostra percezione, la nostra memoria, i nostri ricordi e il nostro orientamento nel mondo.

[Segue]

2 commenti:

  1. Il tuo articolo è molto interessante e apre mille argomentazioni e discussioni.
    Volevo aggiungere una considerazione su un'altra lingua molto diversa dalla nostra, il giapponese:
    Nella lingua giapponese non esiste differenza di coniugazione tra singolare e plurale, per cui una parola può riferirsi sia ad una che a mille persone. :)

    Nicholas

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  2. Grazie, Nic, del commento. Esaminare le ricadute del linguaggio sul pensiero è molto importante; tuttavia, sarebbe altrettanto interessante anche notare come l'ambiente –inteso in senso materiale: il clima, la conformazione geografica, ecc.– abbia condizionato e condizioni tuttora la formazione di una lingua.

    Per quanto riguarda i rapporti sociali e politici, credo che l'influenza sia reciproca, ossia: la sintassi e la morfologia guidano la rappresentazione delle relazioni fra individui e dell'organizzazione sociale, ma, al contempo, le stesse relazioni sociali (almeno agli albori della lingua) hanno un loro peso nel determinare i rapporti fra parole.

    Non conosco il giapponese, se non per il fatto che non esistono sillabe chiuse e, pertanto, nessi consonantici. Una parola come "prato" dovrebbe pronunciarsi –correggimi se sbaglio– "purato" (non so bene quale sia la vocale epentetica).

    Passando a un'altra lingua, una caratteristica del latino che m'ha sempre affascinato è l'assenza di obblighi di posizione delle parole. L'italiano ha struttura soggetto-verbo-oggetto (con l'eccezione, che conferma la regola, delle sintassi marcate come le dislocazioni, i temi sospesi, ecc.); il latino non ha struttura e, potenzialmente, le parole possono essere disposte in qualsiasi ordine. Sono infatti le terminazioni a stabilire il rapporto di una parola con ciascun'altra. Ad esempio "Mario mangia la mela con Luigi" si può tradurre nei seguenti modi, tutti ugualmente validi: "Marius malum cum Aloisio edit"; "Cum Aloisio Marius malum edit"; "Edit Marius cum Aloisio malum"; "Marius edit malum cum Aloisio"; "Marius edit cum Aloisio malum". ["Aloisius" è la latinizzazione di un nome d'origine germanica; non c'era nessun Luigi fra i Romani :-)]

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