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martedì 7 settembre 2010

Linguistica

Il linguaggio influenza il pensiero? Parte I

Il 26 agosto scorso il New York Times pubblicò un articolo di Guy Deutscher, ricercatore di Linguistica all'Università di Manchester. L'argomento è uno dei più suggestivi della linguistica moderna: l'influenza del linguaggio sul modo di pensare e, quindi, di agire. Essendo l'articolo piuttosto lungo, lo pubblicherò in diverse parti. Grassetti e collegamenti sono miei, così come la traduzione. Buona lettura.

Di Guy Deutscher


Settant'anni fa, nel 1940, una nota rivista di scienza pubblicò un breve articolo che diede l'avvio a una delle mode intellettuali più di tendenza del XX secolo. A prima vista, nell'articolo c'era poco che facesse presagire il futuro successo. Né il titolo, “Scienza e linguistica”, né la rivista stessa, MIT's Technology Review [Rivista di Tecnologia del MIT NdT], avevano il fascino necessario a spopolare fra la gente. E l'autore, un ingegnere chimico che lavorava per una compagnia di assicurazioni e aveva un secondo lavoro come docente a contratto di antropologia a Yale, era un candidato improbabile per la celebrità internazionale. Eppure Benjamin Lee Whorf dette vita a un'idea affascinante circa il potere del linguaggio sulla mente, e la sua appassionante prosa indusse un'intera generazione a credere che la nostra lingua madre limitasse ciò che siamo capace di pensare.

In particolare, annunciò Whorf, le lingue dei nativi americani impongono sui parlanti un'immagine della realtà che è del tutto differente dalla nostra; così, i parlanti non sarebbero affatto capaci di capire alcuni dei nostri concetti più elementari, come lo scorrere del tempo o la distinzione fra oggetti (come una “pietra”) e azioni (come “cadere”). Per decenni, la teoria di Whorf abbagliò sia il mondo accademico che il pubblico. Nell'ombra, altri fecero una serie di ingegnose affermazioni sul presunto potere del linguaggio, dall'asserzione che le lingue dei nativi americani instillino nei propri parlanti una comprensione intuitiva del concetto einsteiniano di tempo come quarta dimensione, alla teoria secondo la quale la natura della religione ebraica fu determinata dal sistema di tempi verbali dell'antico ebraico.

Alla fine, la teoria di Whorf dovette soccombere ai fatti nudi e crudi e al solido senso comune, quando fu rivelato che non c’erano mai state prove a supporto delle sue fantasiose affermazioni. La reazione fu così veemente che per decenni qualsiasi tentativo di esplorare l’influenza della lingua madre sui pensieri fu relegata con discredito ai margini della stramberia. Ma settanta anni dopo, è arrivato il momento di lasciarci alle spalle il trauma di Whorf. Negli ultimi anni, nuove ricerche hanno rivelato che, quando apprendiamo la nostra lingua madre, apprendiamo effettivamente certe abitudini mentali che influenzano la nostra esperienza in modi significativi e spesso sorprendenti.

Ora sappiamo che Whorf commise molti errori. Il più serio fu assumere che la nostra lingua madre limitasse la nostra mente e ci impedisse di pensare certi pensieri. La struttura generale della sua argomentazione fu affermare che se un linguaggio non possiede una parola per un certo concetto, allora i suoi parlanti non sarebbero stati capaci di capire quel concetto. Se una lingua non ha il tempo futuro, per esempio, i suoi parlanti non sono capaci di afferare la nostra nozione di tempo futuro. Sembra difficile da comprendere che questa linea argomentativa abbia raggiunto un tale successo, poiché ovunque si guardi ci sono prove del contrario. Quando si chiede, in un normale inglese, e al tempo presente “Are you coming tomorrow?”, la nozione di futuro forse ci sfugge? Chi parla italiano e non ha mai sentito la parola tedesca Schadenfreude trova forse difficile comprendere il concetto di rallegrarsi delle disgrazie altrui? O ancora: Se l’inventore di parole bell’e pronte nella nostra lingua determinò quali concetti saremmo stati in grado di comprendere, come possiamo apprendere qualcosa di nuovo?


[Segue]

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