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martedì 24 agosto 2010

Comunicazione politica

Come tradurre uno slogan politico vincente e perdere lo stesso le elezioni 

Il manifesto di Obama col suo "Sì, noi possiamo".
Le elezioni nelle democrazie moderne occidentali, si sa, le vince chi riesce ad affascinare di più l'elettorato. E nel fascino di un candidato tanta parte hanno le parole. Eisenhower, detto "Ike", successore di Harry Truman, adottò, nelle elezioni presidenziali statunitensi del 1952, lo slogan «I like Ike»: efficacissima paronomasia che ha il pregio di unire la facile memorizzazione e l'associazione del nomignolo del candidato alla preferenza personale del votante.

E questo è stato soltanto il primo caso – un caso paradigmatico – che dimostra quanto due, tre parole possano influenzare le scelte degli elettori. L'ultimo esempio, in ordine di tempo, della semplice epperò potente capacità di persuasione di un motto foggiato con grande abilità è quello dell'obamiano «Yes, we can». Qui abbiamo un'asserzione decisa («Yes»), seguita da quel «noi possiamo», che, mentre crea una forte unione fra il candidato e gli elettori accomunati in un'unico soggetto (il "noi") [1], assicura della possibilità del cambiamento. In tre parole una speranza per il futuro e una garanzia di unità e partecipazione.

Anche in Italia si tentò di replicare l'enorme successo di quello slogan, che avrebbe poi portato Barack Obama alla vittoria nel novembre del 2008. Nelle ultime elezioni politiche, nel marzo dello stesso anno, quando Obama contendeva ancora a Hillary Clinton il ruolo di candidato democratico alla Casa Bianca, Walter Veltroni se ne appropriò, traducendolo. Sfortunatamente per l'allora presidente del Partito democratico italiano e aspirante presidente del consiglio, la resa italiana dei suoi consulenti di comunicazione non fu felicissima: «Si può fare».

Si ha qui un'anodina forma impersonale di un'espressione comune in Italia, ma, allo stesso tempo, blanda e poco accattivante. In genere, «si può fare» è la risposta un po' noncurante a un'offerta, un'idea, una proposta; è una replica quasi interlocutoria, che contrasta con la risolutezza e la decisione necessarie a realizzare il «cambiamento» (se l'analogia pedissequa con Obama e il suo «change» era l'intento degli spin doctors di Veltroni). Non c'è traccia di affermazione, di tinte forti che persuadano anche gl'indecisi: rimane solo un frase condiscendente pronunciata senza molta convinzione. Del resto, quest'immagine corrisponde agli atteggiamenti concilianti e docili di Veltroni durante quella campagna elettorale, che portò alla sconfitta del centrosinistra.

Molto meglio avrebbero fatto i traduttori/spin doctors del Pd a parafrasare in altro modo quello slogan vincente (ammesso che non si potesse proprio fare a meno di copiare l'ultima moda d'oltreoceano), ad esempio con «Insieme possiamo» o «Sì, insieme possiamo». Con o senza avverbio di affermazione, la frase contiene sia il concetto di possibilità di cambiare sia l'unione ideale di candidato presidente e cittadini elettori. Sebbene di per sé uno slogan non assicuri la vittoria, questa soluzione avrebbe trasmesso più passione ed emozione dello spento e sbiadito «Se pò ffà», che evoca faciloneria e svogliatezza.



[1] La quarta persona in inglese può talvolta venire interpretata e tradotta con una forma impersonale. In questo caso, credo che quel noi non sia da considerarsi generico, ma un «We, the people», un richiamo all'unità della nazione.

lunedì 2 agosto 2010

Verba svolazzant

Le ultime parole famose: Leader

Leader del partito. Leader del centro, centrodestra, centrosinistra. Azienda leader. Leader di mercato. E ancora diminutivi-dispregiativi come leaderino e leaderuccio, aggettivi di relazione come leaderistico. «Leader» è una delle parole leader per capire il mondo d'oggi. Ma che cos'è il leader? Guida e mentore, ma col piglio del condottiero (un tempo «duce», parola ora proscritta ma riproposta sotto le spoglie, manco a dirlo, del leader) e l'aura del messaggero divino. Un po' meglio del capo – ché il leader s'ascolta volentieri e di lui non si sparla in pausa caffè – più informale del presidente, che dà lustro avere a cena, ma se avanza si può anche non seguire. Meglio che segretario, che odora di muffa e di carte polverose, in un partito può essere leader dimezzato, leaderino o leaderuccio che, italianamente, si aggrappa al proprio cantuccio di potere. C'è anche il líder máximo, tanto amato e venerato da una parte quanto odiato ed esecrato dall'altra, e il leader della classifica, che pure suscita sentimenti contrastanti secondo i colori del cuore. Se una azienda è leader è capofila di un particolare settore d'industria, ma si trova in così buona compagnia che non si capisce come vi sia ancora spazio lassù, nel bel mondo dei leader. Leader è un dirigente, non il rampollo bamboccione che adagia le auguste natiche sulla vetta, ma l'«unto del Signore» (ogni riferimento è puramente, ecc. ecc.). Con Weber, «leader» è il capo carismatico, un po' santone (e giù giù scadendo verso l'istrione, il ciarlatano e l'imbonitore) e un po' messia, che ispira lealtà e obbedienza ai sudditi-apostoli-dipendenti. Leader è direttore, regista, prima donna capricciosa e primo violino virtuoso. Esempio di santità e dirittura morale, modello di comportamento, il leader accompagna, scorta, protegge il cammino, comanda e ordina, indirizza e dirige, istiga e aizza. «Leader» è la parola grimaldello che ti fa entrare ovunque, il cerino che qualcuno scambia per faro in un mondo che ha perso la bussola.